venerdì 22 gennaio 2016

È qui la paura, è qui che bisogna saltare


Era maggio, e l’aria era tersa. Eravamo seduti sotto i fiori di magnolia. I cirri correvano sospinti dalla brezza. Qualcosa ci aveva portato qui, forse il desiderio di uscire dalla città, forse il desiderio di parlare in un ambiente diverso. È stornante vedere il mondo da qui. Eppure è familiare: una ricognizione da lontano.

“Tu continui a considerare il mondo sotto la prospettiva dell’illusione.”

“Che vorresti dire?”

“Voglio dire che ciò che dice il nostro linguaggio non esiste veramente. Eppure questi colori brillano in tutta la loro lucentezza, e la luce fende le pieghe del tuo viso evidenziandone le superfici tra i chiaroscuri. I tuoi capelli scarmigliati sono sparpagliati dal vento. Questi fiori sono bianchi, e il loro profumo dolcissimo…ma com’è riduttivo quello che esprimiamo!”

“Non pensi che i concetti che abbiamo siano l’unica interfaccia che abbiamo col mondo?”

“Dipende. In un certo senso sì, ma tu continui a non vedere il vuoto che li origina. Ed è questo vuoto ciò che persiste. Tutta la nostra vita è pervasa da concetti inadeguati rispetto a quello che noi sentiamo. Un giudizio di valore è molto complesso nelle sue determinazioni: esso è l’esempio migliore di cosa significa un’astrazione. Umile, Superbo, Bello, Corretto, Buono, Vile, Giusto, Sbagliato…quante possibili definizioni pensi che abbiano questi concetti? Più una parola esprime un concetto generale, più il suo significato è determinato dalla società in cui è usato.”

“In fondo è bello ricamare concetti. Costruire metafore, dare vita a nuove figure…”

“Sei sicuro che dalle parole si possano creare figure?”

“Sì. Perché?”

“Guarda questo filo d’erba. Se lo scomponi all’infinito, troverai le strutture atomiche, e risalendo all’indietro i composti chimici, le cellule e le proprietà biologiche delle piante. Ma noi cosa possiamo dire sulla sua forma? Se tu dovessi disegnare un filo d’erba non tenteresti di approssimare una forma che non riesci a cogliere per intero?”

“Sì, perché? Che c’entra tutto ciò con le parole?”

“Le parole sono segni. Allo stesso modo con cui lo sono le figure che elabori nella tua testa. Un segno organizza le sensazioni in certi modi. Questi modi sono un prodotto sociale. Noi potremmo descrivere il mondo costruendo una geometria di triangoli invece che di figure quadratiche, ma la griglia che noi usiamo non corrisponderebbe a ciò che descrive.”

Nel frattempo lui si accese una sigaretta. Esitavo un po’ a parlare ancora e preferivo leggermi un libro che mi ero portato.

“Ma allora che senso ha provare a dire qualcosa? Non sarebbe allora meglio l’afasia?”

“No. Le parole che dici, i concetti che esprimi, sono un modo di essere delle cose. Il pensiero è una proprietà emergente dei sistemi complessi. Eppure non capirai mai concetti e simboli se ti poni all’interno di essi, né riuscirai a generare nuovi alfabeti. Esiste un mondo che il linguaggio che usiamo non esprime. Questo mondo è il mondo dell’indefinito. Tu sei Flavio Rossi?

“Penso di esserlo.”

“Come pensi di definirti? O perlomeno, come ti definisce chi ti conosce?”

“Una persona un po’ fuori dalla norma, un tipo a volte interessante…”

“Che significano tutti questi termini? A cosa sono riferiti?”

“Non lo so.”

“La nostra identità è una maschera. Non serve che ti citi Pirandello per fartelo capire. Ma se tutto ciò scomparisse? Se rimanesse solo il sostrato di ogni espressione e i concetti che usiamo rimanessero come gusci vuoti? Te cosa saresti? La fine non è la fine. E non è la fine di ogni concetto. Tu ed io forse vagheremmo negli spazi di nuovi linguaggi che meglio esprimano ciò che emerge. Dimenticheremmo le nostre identità, sarebbe l’inizio di altri concetti.”

“Io vorrei solo non perdermi.”

“La conoscenza nasce dal perdersi. È qui la paura, è qui che bisogna saltare.”

Il sole scomparve tra le colline, e noi ci sdraiammo sull’erba. 



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